Se il nostro mondo della politica per qualche momento si astraesse dalle baruffe chiozzotte che ne scandiscono i tempi e i nostri leader si fermassero, respirassero e prendessero insieme un ascensore per guardare le cose dall’alto, probabilmente si renderebbero conto che la maggior parte di loro ha in mente la stessa ricetta. Il nostro Paese sta attraversando un crinale difficilissimo, come se fosse attratto in direzioni opposte da calamite poste ai lati della strada. Con un obiettivo ormai improcrastinabile: diventare un Paese normale. Un Paese dove pagare le tasse è un dovere ma anche un obbligo etico e sociale, un Paese dove se si percepisce uno stipendio è a fronte di una reale prestazione. Sembra ovvio, e probabilmente lo è nella maggior parte dei paesi con cui ci interfacciamo e confrontiamo. Da noi no. Se i signori della politica, una volta scesi dall’ascensore, capissero che l’unica strada è spiegare che la ricetta esiste e che è necessaria per curare il malato, forse toccherebbero una di quelle corde che fanno sì che gli italiani quando vengono pungolati e di fronte a traguardi che sembrano irraggiungibili diano il meglio di sé. La ricetta, quindi, prevede due sole mosse: far sì che la parte più ricca del Paese (e comunque anche i molti che non lo fanno nelle parti considerate meno affluenti) paghino un giusto livello di tasse; far sì che i soldi versati allo Stato non vengano buttati via nelle parti più povere (ma non solo lì) inventandosi posti di lavoro dove non ce n’è bisogno e soprattutto non vengano drenati da corruzione e malavita. Un nuovo patto sociale, dove chi ha di più dà una parte di quello che ha (ma deve essere una parte logica, non illogica) per investire (non per elemosinare) e far sì che anche il resto del Paese imbocchi un meccanismo virtuoso. Crediamo che di fronte a questa prospettiva ognuno di noi sarebbe contento di pagare le proprie tasse e si vergognerebbe se non lo facesse, e chi invece le riceve vorrebbe dedicare il proprio tempo ad attività che portino un valore aggiunto, per sé e per il Paese. E in pochi anni probabilmente questo meccanismo di solidarietà sarebbe sostituito da un uno virtuoso di competitività interna, dove l’unica variabile sarebbe il merito o il talento e non più la provenienza geografica o il censo.
Auro Palomba
FONTE: Fondazione Nordest
AUTORE: Auro Palomba